WIN 55 - Resilienti o arrendevoli?
Resilienza e resa. Possono stare vicine queste due parole, queste due dimensioni dell’essere?
Nel Watsu parliamo di arrenderci all’acqua, la grande resa che ci permette di partecipare alla grande danza dell’abbandono e del contatto autentico con la vita.
Sino a che pensavo alla resilienza come la capacità di resistere alle avversità, di andare sino in fondo cocciutamente, sino a che pensavo allo sforzo dei maratoneti, c’era qualche cosa che non mi convinceva. Sforzo, sforzo, sforzo per ottenere un risultato a tutti i costi.
Ma se penso alla cellula, al tessuto connettivo, alla potenza guaritrice del sistema dei fluidi, al processo di distruzione che porta poi ad una nuova costruzione, allora sento fortemente la fibra resiliente del corpo.
Credo nella capacità dell’organismo di reiterare la vitalità, ciclo dopo ciclo, di trasformare gli imprevisti in occasioni, come l’acqua scende a valle e diventa oceano, ma il suo cammino è imprevedibile e mutevole. In tutto questo riconosco la qualità resiliente di cui noi umani, al pari di ogni altro elemento della natura, siamo costituiti. A patto però di “osservare la natura per capire che la vita è semplice e che bisogna tornare al punto di prima; bisogna tornare alle basi principali della vita senza sporcare l’acqua”. A patto di arrenderci. In questo la pratica di Watsu può tanto sostenerci. La resa fino al centro di noi, dove tutto è silenzio, è forza e vitalità. E’ resilienza. Resilienza allora è credere nell’abbandono. Resilienza è resa.
(Il testo tra virgolette è tratto dal monologo del "folle" del film Nostalghia di Andrej Tarkovskij citato nella performance itinerante nel Bosco sacro di Iera "Se solo potessi sentire" diretta da Giovanni Delfino)
Sulla resilienza www.pietrotrabucchi.it/chisono.asp
Autore: Patrizia Belardi